Domenica 13 febbraio [1994] sono stato contattato da alcune persone di un paese della provincia di Catania che, affrante, mi informavano di aver appreso che una loro intima parente, residente a Ginevra, in Svizzera, versava in fin di vita a causa di una grave forma di leucemia. A detta dei medici, benché la malattia non consentisse soverchie speranze, esisteva un solo presidio terapeutico in grado di fronteggiare il decesso, e questo era quello della trasfusione. La donna e il marito, però, Testimoni di Geova da dieci anni, rifiutavano tenacemente tale trattamento medico, preferendo ad esso persino la morte.
Disperati, i parenti mi chiesero di intervenire. A nulla valsero i miei dinieghi, dinieghi motivati da due ragioni: la prima è che ero certo di non poter nemmeno parlare con quelle persone, in quanto ai Testimoni è proibito di parlare con gli ex; la seconda è che rispetto profondamente le scelte degli altri e mi sembrava non opportuno esercitare alcuna forma di pressione su gente che, a sua volta, era stata già così pesantemente condizionata … al punto da scegliere di morire pur di non violare un comando del Corpo Direttivo. Nonostante questo, non riuscii ad eludere la richiesta e mi recai a Ginevra dove, la sera del 15 febbraio, ebbi un incontro di tre ore con il marito della signora leucemica … per poter parlare con quel signore, dovetti attendere che il presidio di Testimoni messi a guardia dell’ospedale si allontanasse ed io, furtivamente, potessi introdurmi.
Cosa accadde in quella circostanza che non esito a definire drammatica e di altissima tensione? Ebbene, accadde quello che potremmo definire un miracolo laico: quell’uomo, al quale avevo comunicato immediatamente chi ero, capì il motivo per cui mi ero spostato dalla Sicilia, pur senza conoscerlo, senza avere verso di lui nessun legame se non quello d’essere entrambi degli esseri umani, fratelli nel senso più ampio della parola. Man mano che la conversazione progrediva, con il supporto di una notevole quantità di materiale documentale dell’organizzazione geovista, quell’uomo, pur affranto dal dolore, cominciò a comprendere che lui e la moglie stavano mettendo in gioco la cosa più importante che possedevano, cioè la vita, solo sulla base di dogmi, ragionamenti, visioni, strafalcioni di un’organizzazione quanto meno discutibile sul piano morale.
Alle undici di sera lasciai l’ospedale e quell’uomo … dichiarò che avrebbe dedicato il resto della notte a meditare e ad approfondire quello che avevamo trattato. Ci abbracciammo e me ne andai.
Ritornato in Sicilia, attesi e dopo ventiquattr’ore giunse una telefonata con la quale mi veniva comunicato che quella donna aveva iniziato la terapia trasfusionale e che adesso i medici avevano qualche speranza di salvarla o, per lo meno, di tenerla in vita in attesa di trovare una cura efficace. Tutto questo non può non far riflettere.
Senza attribuire al mio intervento nessun valore se non quello di un tentativo fortunato, una cosa è chiara: una famiglia sarebbe andata incontro ad un lutto gravissimo senza altra motivazione che il fanatismo e l’ignoranza. È bastato che ad un Testimone fosse fatto un discorso chiaro perché questi, che fino ad un momento prima era pronto all’irreparabile, cambiasse idea. Il che significa che per moltissimi Testimoni la salvezza è a due passi, e si chiama informazione, quell’informazione che viene tenuta lontano da loro dai loro capi che, temendo risultati del genere, proibiscono, pena la scomunica, qualsiasi contatto con gente come me, che sa.
Sergio Pollina – estratto dal periodico Cammino del 6 marzo 1994